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Consenso informato: alcune riflessioni

In questi giorni è in discussione al Senato la proposta di legge sul consenso informato. Come avvocato e cittadino attivo, ho provato a sistematizzare il tema, ragionando sul valore giuridico del consenso e sulla nostra esperienza di Tribunale per i diritti del malato di CittadinanzAttiva toscana, per arrivare a formulare proposte migliorative sul tema generale dell’informazione dovuta al paziente.

Dal punto di vista giuridico (tralasciando i più solidi argomenti di Platone e di Ippocrate) il consenso informato serve ad autorizzare la prestazione medica. Senza consenso il medico  non può operare una modificazione biologica o organica di un essere umano. Nel nostro ordinamento l’istituto giuridico del consenso informato afferma il principio di autodeterminazione del paziente. La mancanza di consenso informato, infatti, lede il diritto inviolabile personale ad autodeterminarsi.

Il consenso informato, quindi, risponde alla necessità di garantire il diritto assoluto all’autodeterminazione della persona, ed è espressione del primato della persona rispetto alle determinazioni scientifiche.

Quanto detto, sotto altro punto di vista, sancisce il principio secondo cui è la scienza medica che deve essere asservita alla volontà della persona e non viceversa. Il che, molto più semplicemente, significa che il consenso è reso solo in quanto la prestazione medica attesa è potenzialmente capace di realizzare le aspettative di autodeterminazione della persona malata nella sua proiezione relazionale, esistenziale, ludica, sessuale, professionale ecc… Ciò implica un necessario cambio di prospettiva rispetto alle attuali prassi di raccolta del consenso al trattamento sanitario: alla base dell’informazione resa per ottenere il consenso alla prestazione non c’è l’informazione che il medico rende al paziente, bensì l’’informazione che il paziente offre al medico sulle sue aspettative di guarigione, sulle aspettative che egli vorrebbe realizzare attraverso la prestazione medica. Dopo, e solo dopo, il medico racconta al paziente le possibilità terapeutiche che la scienza e la sua personale prestazione possono garantire e alla fine il paziente sceglie consapevolmente se accettare o meno la prestazione medica. Insomma, la prima fase del consenso informato inteso come espressione del principio di autodeterminazione è la risposta che il paziente offre al medico rispetto alla domanda: che cosa vuoi da me? perché sei venuto qui a farti curare?

Non esplicitare questo momento fondamentale del principio di autodeterminazione significa, ancora una volta, porre al centro del consenso informato il medico e non il paziente.

Per questo, il tentativo di disciplinare legislativamente il consenso informato secondo la proposta di legge in discussione al Senato deve cambiare paradigma genetico del consenso (prima parla il paziente e su quelle aspettative risponde il medico), se non si vuole che la novità nasca vecchia e se non si vuole contraddire il motivo per il quale è diventato urgente disciplinare l’istituto: la dignità della persona e il suo diritto ad autodeterminarsi nelle cure.

Non solo, ma l’informazione sulle sole linee guida, in certi contesti, rischia di essere una vera e propria disinformazione. Infatti, alla luce dei nuovi principi introdotti dalla legge 24 del 2017 (legge Gelli) è da ritenersi opportuno che il consenso sia informato anche sulle statistiche della struttura sanitaria e quelle personali dei medici che intervengono sul paziente, che sono da considerarsi informazioni ormai riconosciute come un vero diritto del paziente a sapere. E’ evidente, infatti, che i moduli di consenso informato riproducono le migliori linee guida del mondo, ma perdono significato se applicate in un reparto ospedaliero che non è invece affatto il migliore del mondo e magari risulta statisticamente ben al di sotto della media.

Essere informato sugli standard qualitativi della struttura di cura e del medico, offre al paziente ulteriori elementi utili per autodeterminarsi nelle cure.

E’ opportuno, anche, che il consenso non venga reso e sottoscritto dal paziente nello stesso giorno in cui questo si sottopone al trattamento medico, almeno per quei trattamenti più invasivi che prevedono il ricovero, circostanza che avviene nella maggior parte dei casi critici.

Inoltre, una buona relazione tra medico e paziente, basata sullo scambio reciproco di informazioni, è il presupposto per abbattere il contenzioso sulla responsabilità sanitaria, per evitare che dalla mancata relazione tra medico e paziente nasca una insana (mal posta) volontà di rivalsa. La mancata comunicazione tra medico e paziente sta alla base dell’errore percepito ed è la condizione pre-giuridica del contenzioso (di ogni contezioso).

Tutti i dati in possesso degli sportelli di ascolto di CittadinanzAttiva – Tribunale per i Diritti del Malato, indicano in modo inequivocabile che l’origine quasi assoluta del contenzioso su malpractice medica è da attribuirsi ad un difetto di comunicazione tra medico e paziente, ad una informazione inefficace, ad una pessima comunicazione, ad una relazione inesistente. Su 10 casi di errore percepito trattati dall’associazione di tutela, dopo le opportune verifiche legali e mediche, solo un caso risulta fondare una ipotesi di responsabilità cioè di errore colpevole; quindi su 100 casi di malpractice medica percepiti solo 10 appaiono fondati. In realtà, quando il paziente chiede di indagare “l’errore percepito” chiede di sapere quello che gli è successo perché riferisce quasi sempre la percezione che non gli sono state fornite adeguate spiegazioni.

La mancanza di informazioni genera sfiducia, preoccupazione, paura e la percezione che qualcosa non è andato come avrebbe dovuto.

Le percentuali in possesso di CittadinanzAttiva indicano chiaramente che nelle ipotesi di responsabilità sanitaria che vengono indagate per conto dei cittadini troppo spesso c’è chi svolge un ruolo di supplenza del medico o della struttura sanitaria per spiegare al paziente, o nei peggiori casi ai suoi familiari, che cosa è successo nel percorso di cura, che tipo di patologie aveva il paziente e il tipo di cura che gli è stato somministrato.

Ecco allora che il diritto all’informazione del paziente non può essere ridotto al solo documento da far sottoscrivere prima di una prestazione sanitaria, ma deve essere inserito in un percorso (procedimentalizzato) di reciproca consapevolezza fondato sulle aspettative del paziente da un lato e delle possibili risposte della medicina e del professionista dall’altro. Alla luce di tali consapevolezze sarebbe da aspettarsi che la disciplina di legge in discussione al Senato possa contribuire ad offrire un valido contenuto alla costruzione di un diverso rapporto tra medico e paziente e che non finisca per essere un altro modo per inaridire la relazione di cura diventando, invece, un’occasione per costruire un rapporto di fiducia non solo personale ma anche con le istituzioni della sanità.

Sulla base dell’esperienza narrativa dei pazienti che lamentano errori medici, è forte la necessità che la relazione tra medico e paziente non si esaurisca nel consenso, cioè prima che il medico inizi il trattamento sanitario, visto che la mera firma dei moduli di “consenso informato” è percepita dal paziente come una liberatoria (illegittima e nulla giuridicamente) di responsabilità. E’ utile, allora, iniziare a declinare un vero e proprio diritto del paziente ad ottenere un flusso continuativo di informazioni sulla sua salute (anche successivamente all’informativa per il consenso), quando tocca al paziente fare i conti con le modificazioni funzionali che la prestazione medica ha provocato o con il fallimento naturale di questa.

Ed è assolutamente necessario comprendere che questa esigenza non può essere affrancata dai meri doveri deontologici del medico ma deve diventare un vero e proprio diritto alla relazione la cui realizzazione deve essere evidente e verificabile.

Se questo è chiedere troppo al legislatore nazionale, forse l’obiettivo potrebbe essere perseguito dalle aziende sanitarie più lungimiranti o almeno quelle che vogliono porsi ad un più alto livello di offerta rispetto agli standard qualitativi; potrebbero essere previsti veri e propri moduli sull’informazione resa non solo prima delle cure ma anche successivamente, al fine di riconoscere concretamente e  non solo formalmente un vero e proprio diritto all’informazione, per esempio formalizzando anche in cartella clinica modalità che diano conto delle richieste di informazioni del paziente e delle relative risposte.

Sarebbe un bel traguardo non solo per la prestazione medica ma anche per aumentare il rapporto di fiducia tra istituzioni della sanità e cittadini.  Quando c’è fiducia e buona relazione le azioni risarcitorie diminuiscono, come sanno bene i medici di medicina generale nei confronti dei quali le azioni giudiziarie non hanno neppure una rilevanza statistica… con buona pace delle compagnie di assicurazione e dei bilanci pubblici.

Nicola Favati, vice segretario regionale di CittadinanzAttiva Toscana

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